Attività Formativa II Semestre “Crimini e misfatti” - Il Diritto penale al Cinema - I incontro: Prof. Giovanni Rossi

  venerdì 12 aprile 2024

UNIVERSITÀ di VERONA | Dipartimento di SCIENZE GIURIDICHE

LABORATORIO IUS-FI | Diritto e Cinema IUS FICTION

 

Attività Formativa II Semestre “Crimini e misfatti” - Il Diritto penale al Cinema - I incontro

12 Aprile 2024 / 14.30 - 18.30 

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La «fatale licenza di ragionare» del giudice: Illegittimo arbitrio o garanzia di equità?

La pena di morte privilegia la funzione retributiva della pena per il reato commesso fino all’estrema conseguenza della perdita della vita, cozzando radicalmente con l’idea del recupero e del reinserimento nella vita sociale del reo/condannato. La sua definitività, il suo postulare un diritto di vita e di morte della società sui suoi membri innescano da sempre dubbi e obiezioni contro di essa, anche a prescindere dalla possibilità, pur sempre presente, di un errore giudiziario che condanni un innocente.

Il cinema ha rappresentato molte volte il dilemma lacerante della liceità (posta la sua legittimità, cioè la conformità a norme vigenti nell’ordinamento giuridico) della pena capitale, che risponde alla logica ancestrale della pena del taglione (occhio per occhio...) e nega l’idea stessa di redenzione e riscatto (quindi recupero alla società) dell’uomo, di ogni uomo.

Poste tali doverose premesse, il film “Porte aperte” (1990) concentra l’attenzione sul ruolo del giudice, chiamato ad applicare la legge e, nella vicenda narrata, intenzionato – senza però un atto formale di disobbedienza verso la legge, che risulterebbe eversivo – a resistere alla pressione della pubblica opinione, da un lato, che invoca la punizione esemplare dell’omicida e vuole rispondere al sangue versato con altro sangue, e del regime fascista al potere, che fa del mantenimento dell’ordine pubblico e della difesa della legalità un vanto e un obiettivo politico primario, a compensare in qualche modo la privazione delle libertà civili e politiche.

Quale spazio residua dunque alla interpretazione della legge da parte del giudice, in vista di superare un formalismo legalistico che pone in contraddizione lacerante il senso di giustizia (che vuole che “nessuno tocchi Caino”) con le norme di diritto positivo? Il giudice deve contentarsi di un ruolo puramente esecutivo, di essere solerte “bocca della legge”, automa eteronomo che può soltanto applicare la lettera della norma disinteressandosi del contenuto, nel rispetto stretto del principio di separazione dei poteri, o ha uno spazio di scelta, in nome di principi giuridici sovraordinati a quelli dell’ordinamento statuale?

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